Natale nel carcere di Regina Coeli di Roma A dialogo con padre Vittorio Trani

Uno sguardo che – e lo si comprende subito – ne ha viste tante

di Antonio Tarallo 

Sguardo profondo e cristallino, quello di padre Vittorio Trani, cappellano del carcere romano di Regina Coeli. Uno sguardo che – e lo si comprende subito –  ne ha viste tante nei suoi oltre quarant’anni di operato al servizio di chi, molto spesso, viene dimenticato, dopo una magari “fallace” notorietà, avuta da qualche notizia di cronaca, pronta per essere “sbattuta in prima pagina”, come si dice. Fuori da quei luoghi della sofferenza, dove il tempo è fermo, ma allo steso tempo della speranza, vorticosamente si aggirano persone in preda all’ultimo acquisto del “regalo da mettere sotto l’albero”. E’ questo il pensiero che coglie/accoglie la mente, uscendo dal centro di volontari “Vo.Re.Co” (Volontari Regina Coeli) di S. Giacomo alla Lungara, dopo circa un’ora di colloquio con chi di colloqui ne sente tanti, di chi già dalla prima mattina, fino ad arrivare alla sera, offre un “tetto”, un caffè, una cena a chi – specialmente in questo periodo di pungente freddo romano – non sa dove ripararsi. 

Sono circa trenta persone quelle che il centro accoglie ogni sera, per un “piatto caldo”. Molti di questi sono ex carcerati, persone che grazie anche a questi momenti “riescono ad avere nuovamente fiducia nella vita, in sé stessi. In quella vita che magari proprio loro, dopo aver sbagliato, hanno compreso di aver tradito. Ma, tradito prima di tutto, nei confronti di sé stessi. E’ questo quello che ascolto, molto spesso, nei colloqui con i detenuti. L’essere consapevoli dell’errore, dello sbaglio verso la responsabilità di sé stessi, nei confronti della vita. E, molte volte, dopo ad esempio un reato grave come quello dell’omicidio, avvertire dentro loro l’esigenza, il bisogno direi, di servire poi la Vita stessa, diviene un segno tangibile della presenza di Cristo nei loro cuori”. Un momento di pausa, di silenzio, colma la stanza-studio di padre Vittorio. Rifletto. E poi aggiunge, con voce quasi impercettibile, perché – in fondo – penso, con il senno di poi, che le parole più importanti vanno sussurrate : “Perché, proprio dove un cuore comincia a pulsare, lì si instaura Dio, Gesù”.  E sono, all’incirca mille i cuori che battono nel carcere di Regina Coeli che nella tradizione popolare romana, da tutti è conosciuto come “i tre scalini”. E, il racconto di padre Vittorio, sembra quasi sfatare la famosa canzone “Le mantellate” (scritta addirittura da firme come Strehler-Carpi), quando dice: “Ma Cristo nun ce sta drento a 'ste mura”. E, invece, c’è ed è forte. Più forte di quello che potrebbe sembrare. Ci dice, padre Trani: “Nel carcere proprio, si comprende di come sia impossibile, per ognuno, riuscire a farcela con le proprie forze. E lo sguardo, allora, di ogni carcerato non può non volgersi a quel Crocifisso della rotonda del carcere”.

Ma, una parola colpisce più di tutte, quando dialoghiamo su questo Natale che si appresta a venire, e – ricordiamolo un po’ tutti – non è Natale solo nelle nostre case, ma anche lì, in quei luoghi molto spesso dimenticati.  La parola è attesa. E per questa parola, padre Trani, ha una idea ben precisa. L’ha detta ai volontari nella messa di Natale, celebrata poco prima del nostro incontro: “Solo se si vive pienamente questo tempo, quello dell’attesa, allora si può essere freschi nel cuore, attori della propria vita, e non persone passive. Se non viviamo l’attesa, si corre il rischio di essere acqua stagnante, si vive – inconsapevolmente – potremmo dire, una semi-morte. Il Natale, allora, serve proprio a ricordarci questo: di vivere pienamente la vita, ci offre uno scossone per ripartire”.   E sono molti coloro che uscendo da quei luoghi, dopo aver scontato la loro pena, sentono il bisogno – appunto – di ripartire. A questo serve, appunto, il Centro di San Giacomo della Lungara, che si trova proprio davanti al carcere di Regina Coeli, nel famoso quartiere di Trastevere a Roma.  “Il centro vive di Provvidenza, come San Francesco faceva”. E poi, continua a raccontarci: “Qui offriamo un caffè, un cornetto, la cena alla sera, un aiuto d’ascolto, di accoglienza. E molte persone che collaborano con noi, sono proprio quelle persone che, una volta uscite dal carcere, sentono il bisogno di servire la vita”.  

Ed allora, che durante la conversazione, “fanno capolino” altre due parole, importanti, belle, profonde, sulle quali, forse, sarebbe anche bene soffermarci, proprio in questo periodo di Natale, di attesa, proprio. Speranza e Misericordia. Certo, sono di solito – almeno come vengono usate,   molte volte – riconducibili al “vocabolario quaresimale-pasquale”, mentre invece – dai racconti del carcere di padre Vittorio – sembra quasi che potrebbero benissimo far da sfondo all’intera intervista, che gentilmente ci ha rilasciato, in questo periodo di feste natalizie. E’ la speranza a toccare i detenuti, una volta usciti. La speranza di ricrearsi una vita, avendo sperimentato la Misericordia, che altro non è “l’esperienza fatta di Dio, che divine vita per noi”. Così precisa padre Vittorio, e aggiunge: “Se c’è un luogo dove poter e dover parlare di speranza, è proprio qui, nel carcere, dove molte volte si sperimenta la presenza ardente di Cristo”.

I temi trattati sono infiniti, in un’ora di conversazione. Tra questi, anche un altro impegno che – in una certa misura – ci riconduce alla memoria quel Giuseppe, padre di Gesù, in cammino, che cerca una dimora per la sua famiglia, dopo la nascita del “piccolo Gesù”. Parliamo de “La casa del papà”, una struttura di accoglienza per i padri che si trovano nella condizione di vedere i propri figli ricoverati all’Ospedale pediatrico “Bambin Gesù” di Roma, polo medico di eccellenza per l’Infanzia. In questi mesi, sono stati già ospitati oltre 120 papà. Il più lontano è arrivato dall'Afghanistan, ma anche da Grecia, Libia, Albania e soprattutto dal sud Italia. Nessun’altra festa, come quella del Natale, in fondo, ci richiama al valore, al senso della famiglia. E quest’anno, grazie a questa casa di accoglienza, molte, potranno viverlo, unite, riscaldate dall’amore di diversi volontari. Magari di fronte a un albero, colmo di luci di speranza, come quello regalato da padre Vittorio a chi presta servizio verso chi ha bisogno.


Antonio Tarallo 

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