Uno specchio in cui rifiutiamo di guardarci

Le carceri italiane e i loro detenuti, storie di uomini che hanno sbagliato

A trent’anni dalla L. 354/75 sulla riforma dell’ordinamento penitenziario abbiamo incontrato Padre Vittorio Trani, presidente dell’associazione Vo.Re.Co, Volontari a Regina Coeli nel suo studio in via della Lungara. Da quasi trent’anni lavora con i detenuti ma ci spiega che in realtà gli ostacoli più difficili da superare stanno fuori dal carcere, in una società che preferisce evitare un problema che più di ogni altro gli appartiene. La maggior parte dei detenuti è destinata a tornare a vivere nella società, occuparsi del loro recupero è perciò un interesse e un dovere di tutti: punire non basta.

COME HA MATURATO LA SCELTA DI LAVORARE IN CARCERE? LA SUA È STATA UNA SCELTA DETTATA DALLE CONTINGENZE CHE HANNO COINVOLTO L’ORDINE A CUI APPARTENEVA OPPURE È STATA FRUTTO DI UN SUO SPONTANEO ATTO DI VOLONTÀ? Io sono francescano della famiglia dell’Ordine dei Conventuali e appartengo alla Provincia Romana che dal 1946 ha ricevuto e portato avanti l’impegno di curare pastoralmente le carceri per adulti di Roma. Dopo l’ordinazione ho fatto tre anni a Rebibbia, poi ho vissuto un’esperienza come parroco in una periferia romana. In seguito a Regina Coeli è morto il responsabile che se ne era occupato dal 1946 fino al 1978; io ero uno dei parroci con maggiore esperienza, così mi hanno chiamato a sostituirlo e adesso sono qui ormai da ventisette anni. Appena sono arrivato ho creato un gruppo di volontari che adesso ha preso il nome di Vo.Re.Co., Volontari Regina Coeli, ed è composto da circa una settantina di persone. Portiamo avanti un impegno vicino all’uomo che si articola in tante direzioni ma è l’aspetto religioso a fare da forza trainante.

INDIPENDENTEMENTE DALLA VOCAZIONE CRISTIANA, COSA SPINGE I VOLONTARI A FARE UNA SCELTA COSÌ FORTE CHE METTE ALLA PROVA L’ANIMO DELL’UOMO ANCHE AL DI LÀ DELLA SUA FEDE? I volontari che lavorano con noi hanno tutti una matrice cristiana, anche se in questi anni ci sono stati due o tre casi di atei che non hanno avuto problemi di inserimento perché la scelta che portiamo avanti, in un carcere come questo che è ormai a dimensione internazionale, è quella di intervenire per seguire l’uomo. Infatti, oltre alla componente italiana, dal 1992 la maggior parte dei detenuti è di nazionalità straniera, proveniente da circa 60 paesi differenti, c’è quindi una pluralità di cultura e di religione. Svolgiamo il nostro lavoro a livello umano, a prescindere dal credo religioso. Poi nello specifico ci sono anche momenti in cui si affrontano tali argomenti, ma è sempre una scelta libera del soggetto. Cerchiamo di avere attenzione a non strumentalizzare il carcere per quanto riguarda l’aspetto religioso, per cui si ribadisce spesso la libertà di scegliere se andare a messa oppure non andarci. Innanzitutto quindi, come dicevo prima, il nostro compito è servire l’uomo in difficoltà, prescindendo dal suo credo. Poi si è a disposizione per gli atti di culto e tutto quello che appartiene alla fede cristiana.

I SUOI VOLONTARI MATERIALMENTE DI CHE COSA SI OCCUPANO? NELLA SUA ESPERIENZA È STATO TESTIMONE DI RELAZIONI IMPORTANTI E DURATURE TRA VOLONTARI E DETENUTI? Abbiamo diversi campi di intervento, primo fra tutti il sostegno morale al quale segue anche un sostegno materiale per i problemi legati alla quotidianità. Poi ci sono altri interventi a livello culturale ed educativo: corsi di formazione, corsi di inglese, chitarra e tutto ciò che può servire a dare un senso ad un percorso che si è costretti a vivere in assenza di libertà. Tutte le altre forme di volontariato che si occupano di elaborare progetti per la www.volontariato.lazio.it pubblicata il 1 dicembre 2005 formazione al lavoro o semplici progetti ricreativi, avvicinano il detenuto da un’altra prospettiva, aiutandolo anche ad occupare il tempo. Per quanto riguarda i rapporti umani, è normale che si creino relazioni più o meno forti, relazioni che continuano anche una volta fuori dal carcere, dove, soprattutto nella fase del reinserimento, il volontario può giocare un ruolo fondamentale. Certo non è sempre così ma si tratta comunque di relazioni positive. Spesso succede anche che i detenuti, uscendo dal carcere, cerchino di rimuovere tutto ciò che ha a che fare con esso e quindi anche i volontari che gli sono stati vicino.

QUANTI DETENUTI OSPITA LA STRUTTURA DI REGINA COELI? I SUOI SETTANTA VOLONTARI SONO IN GRADO DI SODDISFARE TUTTE LE LORO RICHIESTE DI INCONTRO? Regina Coeli è una struttura di prima accoglienza, è qui che giornalmente arrivano gli arresti in attesa del primo processo. Molti sono di passaggio ma mediamente non si superano le mille presenze, numero che la struttura può ospitare. Una delle note che caratterizza maggiormente questa realtà è appunto la provvisorietà più assoluta nel senso che, terminato il processo, la maggior parte viene trasferita nelle carceri di competenza. Con le nuove disposizioni oggi i processi si spengono nell’arco di dieci giorni anche se a volte possono durare mesi. Comunque i nostri settanta volontari riescono ad organizzare gli incontri in modo da soddisfare quante più richieste possibile.

CONSIDERIAMO IL CONCETTO DI TOTALE ESCLUSIONE DI CUI SI NUTRE L’IMMAGINARIO COLLETTIVO SULL’IDEA DEL CARCERE. COSA I VOLONTARI PORTANO DALL’ESTERNO E COSA INVECE, APPRENDONO DALLA LORO ESPERIENZA CON I DETENUTI? Insieme al cappellano, i volontari sono le prime figure non istituzionali che i detenuti incontrano in carcere e sono comunque espressione della comunità civile che vive al di fuori. Si potrebbe dire che il volontario porta all’interno quella porzione di vita che il carcere spegne. La vicenda giudiziaria tende a passare sopra l’uomo, cancellandone alcuni diritti, i più semplici, quelli del vissuto quotidiano. Quindi il volontario porta innanzitutto l’interesse nei confronti di una persona che si sente dimenticata. Viceversa anche i volontari non escono dal carcere a mani vuote. Può sembrare strano ma il mondo del carcere dona tantissimo dal punto di vista umano e dei valori. Si incontrano delle persone che, vivendo una situazione di grande disagio, svelano delle dimensioni impensabili in termini di solidarietà e umanità, uomini veri. Col carcere cadono tutte le livree, tutte le configurazioni mentali che si possono avere perché in qualche modo si è nudi, si è sé stessi. Incontrare personalità del genere ti da la possibilità di ricevere grandi lezioni di vita. Spesso siamo chiamati a parlare di questa realtà che tutti considerano chiusa, lontana, scomoda a volte e per questo è meglio demandare a qualcun altro il compito di occuparsene. Quest’atteggiamento culturale così diffuso è diventato la premessa del mio libro (“Tra il serio e il faceto”), scritto per cercare di trasmettere un messaggio ben preciso: l’uomo che ha sbagliato è pur sempre un uomo, un uomo che subisce la punizione per i suoi errori, un uomo che però è comunque candidato a ritornare nella società. Ed è proprio per questo che la società stessa ha il dovere di accompagnarlo nel suo percorso di riabilitazione.

ESISTE UN PERCORSO DI FORMAZIONE PER I NUOVI VOLONTARI? Certamente. Ogni anno in primavera, dopo aver raccolto la disponibilità di chi ha intenzione di intraprendere questo cammino, organizziamo un percorso di formazione così che, quando a settembre si riapre l’anno sociale, i volontari che sono ancora convinti della loro scelta decidono di venire in carcere. Qui cominciano innanzitutto a conoscere questa realtà, affiancandosi a volontari più esperti per poi, sempre che lo ritengano opportuno e se idonei, continuare il loro impegno camminando con le proprie gambe. Succede anche che i volontari che iniziano questo percorso non sono in grado di portarlo a termine per il forte impatto emotivo da cui vengono investiti. Spesso ci si trova di fronte a grossi problemi dai quali si deve imparare a tenere il giusto distacco per evitare di soffrirne in prima persona.

LEI LAVORA NEGLI AMBIENTI CARCERARI ORMAI DA PIÙ DI TRENTA ANNI, RIGUARDO ALLA LEGGE 354 DEL 1975 SULL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO, RITIENE CHE ABBIA INCISO SULLA REALTÀ CARCERARIA DELL’EPOCA? E ATTUALMENTE, LE COSE SONO EFFETTIVAMENTE CAMBIATE? Quella è stata una svolta molto positiva e non solo per l’epoca. Dal punto di vista legislativo la L. 354 del 1975 e tutte le leggi che sono seguite fino ad arrivare al nuovo ordinamento penitenziario del 2000, hanno comunque rappresentato una serie di opportunità che si sono create e che hanno rotto la ferrea realtà del carcere offrendo la possibilità di un reinserimento attuabile. Il cambiamento lo si tocca con mano, certo poi la legge nella sua applicazione, soprattutto nella fase del reinserimento, deve scontrarsi con tante difficoltà, prima fra tutte la mancanza di lavoro. Oggi si sta cercando di risolvere il problema con le attività delle cooperative sociali ma è un problema di enormi dimensioni che difficilmente troverà una soluzione definitiva. Mancano poi strutture alternative di accoglienza, esistono molti casi in cui ai detenuti vengono concessi gli arresti domiciliari pur non avendo un domicilio dove scontarli e per questo sono costretti a restare in carcere. Se si fa eccezione per alcune realtà volontaristiche, le istituzioni, da questo punto di vista, sono molto carenti.

RIGUARDO LA RIABILITAZIONE COSA È VERAMENTE FONDAMENTALE PER IL DETENUTO AFFINCHÉ POSSA RIMETTERSI IN GIOCO NUOVAMENTE? Fuori dal carcere il detenuto è considerato una persona che è comunque condannata a sbagliare in eterno. Non è affatto così. Il detenuto è un uomo che ha sbagliato e dietro i suoi sbagli si nascondono i problemi di un’intera società. Il reato non fa altro che svelare questi problemi e mi riferisco alla tossicodipendenza, all’alcolismo, al degrado delle periferie, alla salute mentale, ai problemi connessi alla famiglia. Sarebbe quindi il caso di intervenire prima sul problema che ha portato all’errore umano. Comunque di fondamentale importanza è il coinvolgimento della persona e la sua ferma convinzione nel recupero. Oltre questo, da un punto di vista più pratico, il lavoro resta la cosa più importante per un detenuto che ha voglia di reinserirsi e ancora una volta torniamo a parlare del muro più alto contro cui un ex-detenuto deve scontrarsi: il pregiudizio, molto più diffuso di quanto si possa immaginare.

SPESSO HA PARLATO DI BARRIERE CULTURALI E DI PREGIUDIZI, SECONDO LEI COSA ANDREBBE FATTO PER SUPERARE TALI BARRIERE? SAREBBE IL CASO DI SENSIBILIZZARE MAGGIORMENTE I CITTADINI? Le rispondo partendo da una considerazione su un periodo ormai storico eppure molto recente. Durante tangentopoli noi abbiamo avuto una fortissima richiesta di aspiranti volontari perché, data la copertura mediatica dei fatti e il coinvolgimento di persone al di sopra di ogni sospetto, la società in quel periodo ha avuto la possibilità di avere un confronto ravvicinato con il tema della giustizia. Ciò dimostra che far conoscere la realtà del carcere, quindi avvicinare i detenuti alla società e la società ai detenuti, offre l’opportunità di abbattere molti pregiudizi che, come sempre accade, nascono dall’ignoranza, intesa come mancata conoscenza.

 

www.volontariato.lazio.it pubblicata il 1 dicembre 2005

http://www.volontariato.lazio.it/documentazione/documenti/TrentaAnniRiformaCarcere_VittorioTrani_Intervista.pdf